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    Boris Johnson si è dimesso: ascesa e declino di un moderno Re Lear

    Boris Johnson si è dimesso: ascesa e declino di un moderno Re Lear
    Il primo ministro britannico si è dimesso ieri, dopo una strenua (e, nelle fasi finali, paradossale) resistenza: lo ha annunciato ieri mattina davanti alla porta n. 10 di Downing Street. La situazione era già critica negli ultimi tempi, tra accuse, scandali e sfiducia di parte del governo, ma, nonostante i tentativi di Johnson di resistere e non dimettersi, il colpo di grazie è arrivato negli ultimi giorni con la fuga di quasi 60 ministri e membri del governo. Ora rimarrà in carica fino all’autunno, quando verrà nominato il nuovo leader. Ma il laburista Starmer non ci sta: “Via subito o lo sfiduciamo in Parlamento”.
    La metafora shakespeariana risulta piuttosto calzante (e non è l’unica che si può trovare): Boris Johnson come moderno Re Lear, nella tragedia del monarca incapace di distinguere il giusto dall’ingiusto, “manipolato” dai suoi collaboratori più stretti e dalla stessa first lady, fino a una conclusione ingloriosa e rovinosa.
    Laureato in Classics ad Oxford, presto divenuto presidente della Oxford Union (l’associazione dei famosi dibattiti) e del Bullingdon Club, inizia come giornalista al Telegraph e allo Spectator, un giornale conservatore. Ma ben presto si sente predestinato al potere: deputato dal 2001, ministro nel governo ombra dell’opposizione, viene poi costretto a dimettersi per una bugia sulla relazione extraconiugale con una delle sue redattrici (suonava già come un campanello d’allarme).
    Nel momento in cui sarebbe potuto scomparire, Johnson torna in carreggiata facendosi eleggere a sorpresa primo cittadino di Londra, una città da sempre progressista. Potrebbe accontentarsi di replicare e continuare ad amministrare la capitale, ma l’ambizione è ancora più alta: intravvede nella Brexit la possibilità di screditare due rivali dei Tories, David Cameron e Theresa May, e inizia a raccontare favole ai cittadini rispetto agli enormi benefici che l’uscita dall’Europa avrebbe portato alla Gran Bretagna. Nel 2019 entra a Downing Street e, dopo aver portato il Paese alle urne, ottiene la più grande vittoria elettorale per la destra inglese perlomeno negli ultimi 30 anni.
    La sua ascesa lo dipinge come l’inventore del populismo (o almeno uno tra i primi ad incarnarlo), prima di Trump in America e molti altri leader mondiali, grazie anche alla crescita dei consensi nella Red Wall del nord-est inglese, la classe operaia laburista. Una capacità impressionante e unica di vincere le campagne elettorali (non ne ha mai persa una), ma un’incapacità altrettanto pesante di amministrare il consenso con coscienza, tra diktat alla Ue, violazione delle norme anti-Covid da lui stesso imposte, “ingenuità” imperdonabili se non vere e proprie menzogne sistematiche che lo hanno isolato sempre di più.
    L’inizio della fine è cominciato con le dimissioni di Dominic Cummings, l’artefice della vittoria degli euroscettici al referendum per la Brexit nel 2016, probabilmente cacciato anche dalla moglie di Johnson, Carrie Sysmonds. Poi il caso del deputato Tory Owen Paterson, amico di lunga data del primo ministro, additato da una commissione parlamentare bipartisan di aver fatto lobby e aver guadagnato in modo illegittimo dalla sua posizione nella Camera dei Comuni di Westminster.
    Fino allo scandalo “Partygate” delle feste a Downing Street durante il lockdown, per cui venne multato e indagato dal Parlamento per aver professato il falso in aula, e il clamoroso caso più recente del deputato Christopher Pincher, promosso dallo stesso primo ministro a vice “chief whip” (colui che indica e disciplina i voti del gruppo conservatore alla Camera dei Comuni) e costretto a dimettersi pochi giorni fa per le serate di alcol e molestie sessuali nei confronti di giovani attivisti Tory. E il fatto è che non era affatto la prima volta che Pincher si cimentava in “imprese” simili, come avevano già detto molte volte i suoi oppositori, ma Johnson è sempre sembrato essersene “dimenticato”.
    Una serie di “fulmini a ciel sereno” dai quali Johnson era quasi sempre riuscito a cadere in piedi, ma che all’ennesima ripetizione non hanno potuto far reggere il consenso verso un leader così poco trasparente, e hanno in tal modo dilapidato nel giro di 2 anni una maggioranza iniziale di oltre 80 seggi.
    Boris Johnson ha cercato di resistere fino all’ultimo sotto i colpi di queste accuse, non potendo e non volendo rinunciare a quello che per lui è “il migliore lavoro del mondo”, ma con il fiume di dimissioni degli ultimi giorni – tra cui anche quelle di due ministri nominati appena 72 ore fa, Nadhim Zahawi e Michelle Donelan – la resa è stata pressoché obbligata.
    Ora si aprono molteplici scenari possibili, con Johnson che dovrebbe rimanere in carica ancora fino all’autunno, quando verrà nominato il nuovo leader – in tal caso supererebbe in durata il mandato di Theresa May di 1106 giorni. Ma il leader laburista Keir Starmer ha dichiarato di non essere disposto a un prolungamento, minacciando Johnson di sfiduciarlo in Parlamento se non se ne va immediatamente.
    Le voci che volevano un clamoroso ritorno di Theresa May a Downing Street sono state smentite, e ci sarà un gran fermento per ipotizzare chi potrà essere il successore.
    La carriera politica di un uomo che affermava di voler rimanere in carica fino al 2030 sembra essere definitivamente, e abbastanza repentinamente, finita senza possibilità di riscatto. Per tornare a Shakespeare, anche la frase di Marco Antonio “Il male che l’uomo fa gli sopravvive” sembra calzare abbastanza bene. Nel caso di Johnson, verosimilmente, rimarranno la Brexit, le sue menzogne e i suoi danni.
    Pietro Broccanello

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