Tra le ipotesi che preoccupano la Banca Centrale Europea, ce n’è una che inizia a farsi largo con maggiore insistenza: il rischio che le trattative commerciali tra Stati Uniti e Unione Europea si impantanino, facendo naufragare i negoziati sui dazi e aprendo la strada a nuove imposte volute da Donald Trump. In uno scenario simile, non si può escludere che Francoforte debba tornare in campo con misure più espansive. E a dirlo non sono solo i sostenitori delle politiche accomodanti: persino il governatore belga Pierre Wunsch – voce considerata intermedia nel board dell’Eurotower – ammette che “se la ripresa continua a essere rinviata e l’economia resta sotto il suo potenziale, ha senso pensare a un supporto, per evitare che l’inflazione scenda troppo sotto il target del 2%”.
Il clima di incertezza aleggia anche sul forum di Sintra, l’appuntamento annuale dei banchieri centrali europei. Ufficialmente la linea resta cauta: decisioni prese di volta in volta, in base ai dati più recenti. Christine Lagarde, presidente della BCE, lo ha ribadito con chiarezza, sottolineando però come i rischi macroeconomici siano ormai orientati verso il basso. Nessuna stretta a luglio, dunque, ma piena libertà d’azione in vista di settembre.
Tuttavia, le relazioni con Washington non fanno ben sperare. Le posizioni sempre più muscolari di Trump, unite alla rigidità della Ue in tema di regolamentazione digitale, privacy e tutela dei dati, lasciano pochi margini per una vera distensione. Anche in assenza di un’escalation vera e propria, l’inerzia del negoziato potrebbe continuare a pesare. Moody’s, intanto, ha tagliato le stime di crescita per gli Stati Uniti all’1% e ha limato quelle per l’Eurozona all’1% (dal precedente 1,3%).
Le stesse proiezioni della BCE incorporano uno scenario base in cui si ipotizzano dazi americani al 10%: in quel caso, la crescita dell’Eurozona si fermerebbe allo 0,9%. Ma l’istituto centrale ha già chiarito che un aggravarsi delle tensioni porterebbe a un’ulteriore frenata, sia sul fronte del Pil che dell’inflazione.
A rafforzare l’ipotesi di un intervento espansivo c’è anche la proposta della commissione tedesca sul salario minimo, che punta a portarlo a 13,9 euro l’ora entro il 2026 e a 14,6 nel 2027. Secondo Goldman Sachs, un simile incremento inciderebbe per 0,4 punti sull’inflazione tedesca. Un dato che, inevitabilmente, entrerà nelle valutazioni del Consiglio direttivo della BCE.
Infine, pesa anche l’andamento dell’euro. Un cambio a 1,18 contro il dollaro rende più difficili le esportazioni europee e riduce l’inflazione importata, due fattori che complicano ulteriormente il quadro.
Se i negoziati commerciali con gli Stati Uniti dovessero davvero saltare, l’Eurotower potrebbe essere costretta ad andare oltre le attese attuali dei mercati, che prevedono un tasso terminale all’1,75% con un ulteriore taglio da 25 punti base in autunno. Una possibilità che, alla luce degli sviluppi, appare sempre meno remota.
Gloria Giovanditti