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    Istat: 45% delle imprese a rischio strutturale

    Istat: 45% delle imprese a rischio strutturale
    L’ultimo rapporto Istat sulla competitività dei settori produttivi illustra la precaria situazione delle imprese italiane.
    Il 45% delle imprese è a “rischio strutturale” mentre il rischio di insolvenza di molte aziende potrebbe determinare un effetto a catena sulle banche. È quanto emerge dal “Rapporto sulla competitività dei settori produttivi 2021” redatto dall’Istat che analizza anche gli effetti della crisi pandemica sulle aziende. L’indagine illustra con dati una realtà sotto gli occhi di tutti gli imprenditori: i continui lockdownhanno comportato un crollo del fatturato per la maggior parte delle attività italiane e al momento rimangono limitate le prospettive di ripresa nel 2021.
    L’Istituto Nazionale di Statistica ha infatti calcolato che nel 2020 il valore aggiunto è diminuito dell’11,1% nell’industria, dell’8,1% nei servizi e del 6,3% nelle costruzioni. Alcuni comparti del mondo dei servizi hanno subito il colpo peggiore: -16% per commercio, trasporti, alberghi e ristorazione; -14,6% per attività artistiche e di intrattenimento; -10,4% per attività professionali, scientifiche e tecniche, amministrative e servizi di supporto alle imprese. Sul versante manifatturiero il crollo più grave è stato registrato nel comparto tessile (-23%), seguito da macchinari e mezzi di trasporto (-15%). Le esportazioni si sono ridotte del 9,7% in valore mentre alimentari (+2%) e farmaceutico (+3,5%) sono gli unici settori con incrementi di valore aggiunto. Il turismo ha subito gli effetti economici più devastanti con una diminuzione degli arrivi totali pari al 59,2%. In questo settore, più di un quarto delle imprese non è ancora riuscito a pianificare strategie di reazione alla crisi mentre appena un quinto  ha diversificato l’attività.
    Il rapporto Istat rileva come il 45% delle imprese con almeno 3 addetti (rappresentative del 20,6% dell’occupazione e del 6,9% del valore aggiunto complessivo) è a “rischio strutturale”: esposte a una violenta crisi esogena, subirebbero conseguenze tali da metterne a repentaglio l’operatività. Solo l’11,6% è solido ma genera il 46,3% dell’occupazione e il 68,8% del valore aggiunto totale.
    La crisi ha modificato anche i comportamenti delle imprese riguardo le modalità di finanziamento. Tra le varie soluzioni adottate per far fronte alla crisi di liquidità, il credito bancario ha svolto un ruolo primario. Permane tuttavia il problema dell’insolvenza di molte aziende: questo è il principale fattore di rischio per il sistema produttivo italiano nei prossimi mesi. La situazione attuale è dunque precaria e tale insolvenza aumenta l’esposizione del sistema bancario a possibili trasmissioni dello shock dal segmento non finanziario, implicando potenziali tensioni nei bilanci delle banche.
    La crisi pandemica ha generato fratture eterogenee nel territorio italiano, anche a causa dell’adozione di misure di contenimento differenziate a livello regionale. Cinque delle sei regioni il cui tessuto produttivo viene classificato “ad alto rischio combinato” in termini di addetti e imprese, appartengono al Mezzogiorno: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania e Sardegna, mentre una al Centro (Umbria). Le sei regioni classificabili a rischio basso si trovano invece tutte nell’Italia settentrionale: Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Provincia autonoma di Trento.
    Per quanto riguarda le prospettive, meno di un impresa su cinque è ottimista riguardo alla ripresa nel 2021. Secondo il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, “il perdurare della crisi sanitaria e le prospettive ancora incerte circa il suo superamento impediscono di formulare una valutazione complessiva delle conseguenze sul sistema produttivo italiano”.
    Simone Fausti

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