giovedì, Marzo 28, 2024
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    Ripartenza ed Europa: intervista all’Onorevole Salini

    Dall’Italia all’Europa, uno sguardo d’insieme alla crisi da parte di uno dei suoi osservatori più attenti, l’onorevole europeo Massimiliano Salini.

    On. Salini, i numeri dicono che la cosiddetta fase 1 sta terminando. Possiamo davvero permetterci di rinviare la fase 2 a maggio?

    In realtà, dal mio punto di vista, la distinzione tra fase 1 e fase 2 è sempre stata fin dall’inizio non del tutto corretta. Fatto salvo il primo momento di spaesamento a ridosso dell’individuazione del primo paziente positivo – con colpevole ritardo dell’Oms perché la gravità della situazione in Cina avrebbe dovuto allertare in maniera differente dal punto di vista sanitario – credo che sarebbe stato più corretto immaginare fin dall’inizio una gestione che mettesse in parallelo, e non in successione, la gestione della profilassi dal punto di vista sanitario e quella dei processi produttivi, in convivenza con il virus. Da subito avrei affrontato con una task force immediata il tema del “non blocco” dei processi produttivi, cosa che peraltro molti Paesi europei hanno fatto. In Italia abbiamo bloccato intere filiere ma in altri Paesi, come Germania e Francia, assolutamente non è accaduto. A questo punto si tratta di governare l’esistente. Non possiamo certamente chiedere all’economia italiana di rimanere ferma ulteriormente, sappiamo perfettamente, e abbiamo condiviso dei protocolli a livello nazionale, come ridurre al minimo il rischio di contagio all’interno delle nostre aziende, quindi la mia opinione è che non si debba aspettare 1 minuto a ripartire. È evidente che non si riparte esattamente con le modalità attuative precedenti, ci sono fabbriche nelle quali si potrà ripartire al 100% perché esistono le condizioni interne per garantire la sicurezza e ci sono realtà produttive in cui questo è più difficile, per cui la ripartenza può avvenire a ranghi ridotti, questo è fuori discussione. Ma nessuno può immaginare che in Italia si rimanga ancora fermi e chi lo immagina è perché non ha un’idea della realtà, di cosa significa oggi tenere ferma la seconda manifattura europea, una nella più brillanti nel mondo. Noi abbiamo il dovere, lo avevamo già 2 mesi fa ma oggi a maggior ragione, di ripartire subito in condizioni di piena sicurezza.

    L’elezione di Carlo Bonomi al vertice di Confindustria segna una rottura col passato: è tornato il vento del nord a gonfiare le vele dell’Italia produttiva?

    L’elezione di Bonomi è un’elezione che registro con grande soddisfazione perché conosco personalmente il mio Presidente, al quale peraltro mi accomunano le origini geografiche, ho avuto modo in questi anni di condividere spesso posizioni e confronti ripetuti presso Assolombarda e ho apprezzato la competenza e la libertà anche nel confronto con la politica. È una persona molto netta, le sue dichiarazioni di questi anni dimostrano che non fa sconti e questo è un vantaggio. Il percorso che ha condotto alla sua elezione ritengo sia stato utile, ho un profondo legame di amicizia e stima con un altro candidato, che poi ha abbandonato la corsa, Giuseppe Pasini, che rappresentava allo stesso modo una tradizione produttiva del nord Italia molto orientata alla manifattura tradizionale, ma con senso di responsabilità ha deciso di far convergere lo sforzo di tutti gli associati verso la candidatura di Bonomi. Non credo ci sia necessità di interpretarla come un’elezione che ricolloca al centro dell’attenzione il nord, non mi pare che la presidenza Boccia avesse trascurato le ragioni del nord. Il tema della divisione tra nord e sud lo vedo molto di più nei capricci del dibattito politico, piuttosto che nelle discussioni all’interno di Confindustria.

    Oggi, per chi produce, il tema è la sopravvivenza, domani saranno i fondi per ripartire. È ragionevole sperare che il Governo troverà il denaro necessario, a qualunque costo, o prevarrà l’ideologia come nel caso del ricorso al MES?

    Questo Governo è incapace di rispondere a un’esigenza come questa. La formula individuata dal Governo è equivoca perché non chiarisce qual è il soggetto a cui intende destinare il grosso del proprio sforzo. Lo schema è emissione di titoli di debito condivisi che vengano in gran parte acquistati dalla Banca Centrale Europea a interessi pressoché zero. Qui si chiude la discussione sugli strumenti finanziari. Mi vien da ridere vedendo il dibattito all’interno del Governo tra pro e contro MES, così come vedere le proposte finte che alcuni fanno, anche di centro destra, illudendosi che l’Italia ce la possa fare da sola. Il richiamo che faccio è che per far ripartire l’Italia bisogna far ripartire le imprese, perché a volte ho la sensazione che questo Governo pensi di far ripartire l’Italia attraverso l’Inps o la Sace. Il Paese riparte se ripartono le micro, piccole, medie e grandi imprese. Qualunque sia l’origine delle risorse, e sono pronto a fare le mie proposte come già ho fatto, l’importante è che siano destinate nella loro grandissima parte alle aziende italiane. Il primo vettore della ripartenza è l’impresa, la libera impresa. Questa cosa il Governo non l’ha capita, tant’è vero che non ha previsto un solo sgravio dal punto di vista fiscale sulle imprese, ma semplicemente la presa in giro del rinvio di due mesi dei pagamenti dell’ F24 a certe condizioni, ma non ha rinunciato ad 1 euro dei propri introiti. I provvedimenti adottati fino adesso vanno quindi nella direzione opposta, cioè ritenere le imprese una sorta di orpello del modello di sviluppo in cui questo governo crede. Io credo che il primo punto sia invertire la tendenza e affermare che senza imprese non c’è ripresa. Aggiungo una postilla, questo Governo non lo capirà mai, è per questo che dico senza infingimenti che, come è accaduto in altre epoche storiche, si cambia il Governo anche in guerra e noi siamo in questa condizione, o cambiamo o non ne veniamo fuori.

    In questi giorni assistiamo al proliferare delle task force che dovrebbero trovare le risposte che la politica non ha il coraggio di dare. Possiamo dire che, a livello di Governo nazionale, questa crisi è frutto di una paralisi gestionale dettata dalla paura?

    La causa principale è un terremoto imprevisto e imprevedibile come questo. La politica non sta facendo il suo mestiere, cioè non sta prendendo decisioni e le ragioni sono molteplici. La prima è l’incompetenza della comunità politica stessa, per cui oggi abbiamo la sfortuna di avere al Governo persone profondamente inadeguate perché totalmente sprovviste di nozioni pertinenti con la struttura economica e sociale del nostro Paese, il secondo elemento è una classe dirigente che non ha la percezione dell’importanza delle decisioni in politica, è molto ossessionata dal problema della comunicazione ma non dalla decisone. Per cui preferisce circondarsi da soggetti che abbelliscono il messaggio, quindi task force molto teorico- accademiche che alzano teoricamente il rating del decisore ma non aumentano la capacità decisionale. In un momento come questo, di fronte ad un attacco violento come quello che la realtà ci ha riservato attraverso questo virus, i soggetti che possono aiutare la politica sono quelli con le mani in pasta, che prendono decisioni tutti i giorni cento volte. Quindi invece di 10 professori devi avere 10 imprenditori, per decidere cosa fare sul mondo dell’impresa. In un momento come questo, la decisione di guardare sempre con sospetto al mondo dell’impresa sta peggiorando ulteriormente le performance del Governo. È un Governo che non sta decidendo, infatti in Italia, a differenza di quasi tutti i Paesi europei, chi dovrebbe ricevere sostegno, cioè le imprese, non ha ancora visto 1 euro, nonostante le tante dichiarazioni.

    La Von Der Leyen chiede che siano rivolte delle scuse all’Italia. È un gesto di pacificazione dei Paesi del Nord o siamo di fronte ad una manovra tattica in vista dell’Eurogruppo del 23 Aprile in cui si deciderà il futuro dell’Unione?

    Un po’ entrambe le cose, c’è molta tattica, molta ipocrisia, c’è anche la consapevolezza di aver sbagliato quasi tutto fino adesso, quindi un tentativo di recuperare almeno dal punto di vista dell’immagine, un misto veramente insoddisfacente che rende l’Europa in questo momento uno dei tanti punti vulnerabili della dorsale istituzionale. Oggi c’è una crisi politica determinata da una grave inadeguatezza della classe dirigente e l’Europa non fa eccezione da questo punto di vista. Purtroppo in Europa l’elemento che manca non è la competenza, cosa che invece manca oggi nel Governo italiano, ma la coscienza di che cosa sia l’Europa effettivamente. Oggi a trainare i giochi è un asse nordico molto eterogeneo rispetto alle origini della Comunità dei popoli europei che oggi si chiama Unione, perché fondato su un’idea di comunità che comunità non è. Possiamo parlare al limite di una sorta di alleanza tra nazionalismi. Per cui, da un lato, abbiamo il populismo imperversante, che trasferisce il messaggio ridicolo di una sorta di ritorno autarchico all’autonomia dei singoli Paesi – oggi i mercati sono talmente interconnessi che nessuno può illudersi di potercela fare da solo – dall’altro, l’alternativa a questo populismo è la sicumera saccente di chi parla di Europa quando in realtà ha in mente un’alleanza tra nazionalismi, cioè Paesi che non hanno nessuna voglia di condividere alcunché con gli altri. L’alternativa è una ripartenza, mi verrebbe da dire da capo, del progetto europeo per come era stato concepito alla sua origine e, come allora anche oggi, l’unica speranza è che questa ripartenza sia una responsabilità che ci assumiamo noi popoli mediterranei, che dentro la nostra tradizione greca, latina e cristiana, abbiamo i rudimenti di quell’idea di uomo che può consentire alla politica di ritornare ad essere servizio al destino buono delle persone. Quindi valorizzazione della libertà, della capacità creativa e di quell’idea di comunione che da sempre ha reso grande dentro l’occidente l’esempio europeo. Chi ha dimenticato questo modello, oggi la fa da padrone ma i risultati mi sembrano talmente scadenti da costringerci a ritornare alle origini.

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