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sabato, Luglio 27, 2024
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    Home Prima pagina Giovani e PMI, quale rapporto? Intervista a Veronica Ronchi

    Giovani e PMI, quale rapporto? Intervista a Veronica Ronchi

    Giovani e PMI, quale rapporto? Intervista a Veronica Ronchi
    Veronica Ronchi è Senior Researcher e Project Manager presso la Fondazione Eni Enrico Mattei. La sua attività di ricerca si è prevalentemente concentrata sulla storia d’impresa (multinazionale, PMI, movimento cooperativo e non-profit) e sulla storia economica dell’America Latina contemporanea. Ha insegnato all’Università degli Studi di Milano diverse discipline legate alla storia economica e alla storia della globalizzazione. Autrice di numerose pubblicazioni, ha altresì affiancato all’attività accademica ricerche di etnografia aziendale per grandi istituzioni e gruppi imprenditoriali.
    Tra i suoi lavori più recenti si ricordano: “Con la testa e con il cuore. I lavoratori e le lavoratrici nelle imprese cooperative delle Giudicarie Esteriori” (ViTren, 2020) e “La dimensione giusta. Giovani lavoratori nella PMI italiana” (GoWare, 2019).
    Giovani e PMI, un rapporto complesso e contraddittorio. Perché i cervelli fuggono dal piccolo? Ed è un fenomeno reale e profondo o soffre di un errore di narrazione?
    I giovani non necessariamente sfuggono al piccolo, ma lo fanno quando questo non promuove le loro capacità e competenze. Piccola è anche la startup con 5 giovani professionisti che lavora nell’High-Tech in cui si creano prodotti ad alto valore aggiunto. E quelle realtà sono fonte di attrazione per talenti in erba. Diverso è il discorso che invece riguarda le piccole imprese che promuovono prodotti a basso valore aggiunto, in cui il giovane occupato non ha possibilità né di sviluppo personale né di carriera. In questi contesti – che in Italia sono molti – è difficile che un giovane lavoratore, in particolare se ha un buon livello di istruzione, trovi piena soddisfazione. Per quanto riguarda la media impresa, che il principale soggetto del libro “La dimensione giusta. Giovani lavoratori nella PMI italiana”, la questione è ancora diversa: qui i percorsi di carriera ci sono e possono essere davvero stimolanti per i giovani lavoratori.
    Speranze e realtà, cosa serve a far innamorare i giovani talenti delle PMI?
    Tutte le più recenti ricerche sul tema sostengono che i giovani sono alla ricerca di una dimensione del lavoro che non parte necessariamente dalla condizione retributiva offerta. Di questo tema bisogna tenere conto. Il rapporto coi colleghi e i superiori, i benefit non salariali, il riconoscimento del lavoro svolto, i possibili percorsi di carriera, la crescita personale, lo smartworking, sono tutti elementi che i giovani valutano molto nella loro vita in impresa. Perché i giovani si innamorino della PMI bisogna offrire loro la possibilità di sentirsi gratificati a più livelli, magari facendogli ricoprire ruoli e mansioni diverse con premialità crescenti, e dunque utilizzare più strumenti per trasportarli verso la condivisione della mission aziendale. Questa è una delle chiavi del successo di un’impresa.
    Il ruolo dello Stato, cosa manca a livello legislativo per facilitare l’entrata dei giovani nel mondo dell’impresa piccola e media?
    La PMI è la principale fonte di occupazione del nostro Paese (circa l’80% degli occupati) ed è chiaro che, in un momento storico come questo, preservare l’occupazione è fondamentale. Durante il periodo pandemico, infatti, 900mila occupati hanno perso il posto di lavoro concentrati tra dipendenti a termine e autonomi. Diversi sono i dubbi sul capitolo del Recovery plandedicato alle misure – oggi del tutto inefficienti – per riqualificare e reinserire chi rimane senza un lavoro. Per le riforme sono indicati solo obiettivi generali, senza dettagli su come si intende cambiare le cose. Lparità di genere e tra generazioni, sulla carta sono “priorità trasversali” e dunque non hanno capitoli dedicati.Le risorse ad hoc per i giovani si fermano al 7,2% del totale contro il 12% del Pnrr spagnolo. E non c’è nulla per stimolare l’imprenditorialità.
    Il primo intervento da fare è pianificare politiche attive di tutela e supporto, a partire dall’orientamento. Attualmente, l’Italia spendemeno di 200 milioni di euro in “supporto all’impiego”, contro i 5 miliardi abbondanti investiti dalla Germania nel solo training e oltre 11 miliardi indirizzati ai servizi per l’impiego. Se il paese non aiuta le nuove generazioni a formarsi un sistema di orientamento delle coordinate all’interno delle quali aggiornarsi e quindi a creare un sistema mobile che adatti la propria visione del mondo alle trasformazioni in corso, difficilmente un giovane riuscirà a immaginarsi in senso dinamico e a costruire un proprio percorso di vita.
    I giovani, infatti, non ricevono abbastanza informazioni su come funziona il mercato del lavoro, su quali sono le competenze più richieste dal tessuto produttivo e dunque nei momenti-chiave di scelta: a 14 anni quando si decide a che scuola superiore iscriversi e a 19 anni quando si decide se cercare lavoro o andare all’università (e in questo secondo caso, cosa studiare all’università) i giovani sono lasciati soli.
    Oltre che preparare bene i giovani, diventa sempre più importante il ruolo di sistemi esperti di orientamento e di sostegno alla riqualificazione in grado di accompagnare, soprattutto nelle fasi di passaggio (come quello dalla scuola al lavoro), il rientro dopo una fase di interruzione (per motivi formativi o familiari), la ricollocazione dopo un episodio di disoccupazione, la mobilità tra diversi lavori, ma anche la mobilità di carriera o l’avvio di una propria attività: aiutare le imprese a individuare i profili professionali di cui hanno bisogno. Le imprese, invece che pretendere che la scuola formi persone con le precise qualifiche che servono loro, dovrebbero da un lato collaborare con le scuole, sfruttando l’alternanza scuola-lavoro, offrendo laboratori, tirocini, stage, e dall’altro pensare alla formazione, all’ingresso e poi al corso della vita lavorativa come una loro specifica attività.
    Il ruolo delle associazioni, come possiamo contribuire a questo processo?
    Le associazioni possono accompagnare gli imprenditori in un percorso di consapevolezza di quali sono i vantaggi competitivi nella valorizzazione dei giovani e aiutare i giovani nel dialogare con le imprese. Ricordiamoci che la genesi della situazione che stiamo vivendo va ricercata nelle riforme che si sono susseguite dalla seconda metà degli anni ’90 in poi che, più che mirare amigliorare la condizione delle nuove generazioni nel mondo produttivo, hanno puntato soprattutto a consentire alle imprese di offrire contratti al massimo ribasso e con facile disimpegno verso i neoassunti. Si è preferito così prendere il giovane disposto a farsi pagare di meno piuttosto che quello con potenzialità su cui investire per migliorare produttività e competitività dell’azienda. In questo modo è stato favorito un sistema che si è avvitato verso il basso, producendo allo stesso tempo scarse opportunità per i giovani, poca crescita e un aumento delle diseguaglianze sociali egenerazionali. Questo trend va invertito cercando di far ripartire l’ascensore sociale, che significa offrire opportunità che vadano oltre i consueti canali di reclutamento, troppo spesso informali e fondati su conoscenze e segnalazioni, e non sistemici e fondati su buona formazione, sull’incontro di competenze acquisite e richieste.
    Il futuro: come fermare l’emorragia delle competenze?
    Secondo dati Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, in Italia circa il 40% dei lavoratori non sono compatibili con le qualifiche del loro impiego. Per l’Italia però, la quota di sottoqualificati (20%) è praticamente identica a quella dei sovra-qualificati (19%): lavoratori giovani, e meno giovani, con talenti che non riescono a essere assorbiti o valorizzati dal sistema delle imprese italiane. Per un professionista al di sotto delle attese dei datori di lavoro, ce n’è uno che si scontra con un sistema incapace di premiarlo: la sua occupazione richiede competenze che non ha, oppure richiede meno competenze rispetto a quelle che ha acquisito nel suo percorso di studi.
    La verità, per quanto riguarda la struttura economica del nostro sistema paese, è che la richiesta di profili high skilled, ad alto tasso di qualifiche, è meno fitta di quanto si potrebbe attendere. Di fronte a questo scenario, è plausibile pensare che le nostre imprese siano inadatte a sfruttare il potenziale dell’offerta di lavoro, soprattutto fra i neolaureati. In Italia scontiamo una struttura produttiva e una domanda di lavoro poco qualificata, a fronte di un’offerta di lavoro molto qualificata. Di fronte a questo scenario se l’economia italiana non riesce a traghettarsi verso il mondo delle economie avanzate rimarrà nella stagnazione di cui soffre da decenni.

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