mercoledì, Maggio 8, 2024
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    La scommessa de “La Valle di Ezechiele”: dalla prigione ad una nuova vita grazie al lavoro

    La scommessa de “La Valle di Ezechiele”: dalla prigione ad una nuova vita grazie al lavoro
    Verrà inaugurata dal ministro della Giustizia Cartabia, il prossimo 25 ottobre, “La Valle di Ezechiele”, cooperativa sociale fresca di costituzione, che ha come obiettivo quello di creare opportunità occupazionali per persone detenute o in esecuzione penale esterna, scommettendo sul loro desiderio di rimettersi in gioco. Ne abbiamo parlato con don David Maria Riboldi, cappellano della casa circondariale di Busto Arsizio, che ha dato vita alla cooperativa di Fagnano Olona (Va) insieme ad un gruppo di amici mossi dal desiderio di offrire un’occasione di vita nuova ai detenuti attraverso lo strumento del lavoro.
    Don Riboldi, come nasce l’idea della cooperativa sociale “La valle di Ezechiele”?
    Sono arrivato a Busto Arsizio nel novembre 2018 ed una delle prime cose in cui ci si imbatte entrando in carcere è proprio la difficoltà nell’avere strumenti per rimettere in piedi le persone.Tra i loro reati, i loro errori e i contesti familiari o relazionali difficili, i detenuti si trovano in un momento di grande solitudine e di abbandono, con poche risorse di credibilità da spendere per potersi rimettere in gioco nella vita. Questa è stata la ragione che ha portato a dare vita, grazie anche allo spirito d’iniziativa di alcuni amici, alla cooperativa “La Valle di Ezechiele”.
    Un nome non a caso quello scelto per la cooperativa. Ce ne spieghi l’origine.
    C’è un tratto evocativo del nome della cooperativa, riprende infattila visione del capitolo 37 del libro di Ezechiele della Bibbia, doveil profeta viene mandato in una valle piena di ossa inaridite e, a seguito della profezia, il Signore rimette in piedi le personedonando loro lo Spirito. Quindi racchiude l’idea di una possibilità di resurrezione che è ciò che sta dietro alla scommessa de “La Valle di Ezechiele. Al tempo stesso, però, c’è anche quella visione a tratti desolante e drammaticamente quotidiana dell’entrare in carcere e incontrare vite talvolta così disancorate e sconnesse che non si sa bene da che parte cominciare per poter provare a rimetterle in piedi. Dentro questa visione c’è sia il tratto faticoso del girare per le sezioni dell’istituto penitenziario, sia il coraggio e l’audacia di lasciare che il Signore, un po’ anche attraverso di noi, riesca davvero ad operare i miracoli che solo Lui sa fare.
    Di cosa si occupa la cooperativa?
    Siamo partiti operativamente solo l’anno scorso non appenadisponibile il capannone sebbene formalmente “La Valle di Ezechiele” sia nata nel 2019 iniziando con lavori di sbavatura della gomma e di assemblaggio, affiancati dall’attività dei cesti natalizi che è stagionale ma molto intensa, basti pensare che per essere la prima volta abbiamo avuto oltre 800 cesti da comporre.Da poco ci siamo lanciati anche sulla digitalizzazione degli archivi cartacei e ci stiamo rivolgendo in particolare alle pubbliche amministrazioni, specialmente ai Comuni della Valle Olona.
    Chi può usufruire dell’opportunità lavorativa che offre la vostra cooperativa?
    Le persone che prendiamo in questo momento si trovano in esecuzione penale esterna, quindi significa che sono sotto i 4 anni dal fine pena e tramite la nostra disponibilità lavorativa vengono scarcerati per essere messi o in detenzione domiciliare o in affidamento sul territorio, iniziando così questo percorso di riabilitazione e inclusione sociale attraverso lo strumento del lavoro. Abbiamo cominciato con i primi quattro detenuti, poi uno si è trasferito e un altro ha invece finito la pena e adesso lavora da un’altra parte. Ne abbiamo preso un quinto e ne sono in arrivo altri due. Per il prossimo futuro siamo anche a disposizione dell’istitutopenitenziario per il cosiddetto articolo 21, che consente alle persone detenute di uscire dal carcere di giorno per lavorare e farvi ritorno la sera, possibilità per ora non ancora riattivata a Busto Arsizio a causa del Covid. Inoltre abbiamo attivato delle interazioni con alcune realtà produttive del territorio, con le quali ci siamo trovati a collaborare lo scorso anno per i cesti di Natale, che avevano bisogno di personale. Grazie a questa collaborazioneuna persona è stata scarcerata e andrà a lavorare presso il noto panificio Colombo a produrre i panettoni, un’altra andrà nel birrificio Orso Verde a produrre la birra per i cesti di Natale e un’altra ancora andrà a lavorare nell’azienda che realizza i sacchi di iuta per confezionare i nostri cesti natalizi. Se va bene il percorso in azienda verranno assunti, altrimenti li prenderemo noi alla cooperativa per continuare l’esperienza lavorativa al di fuori dell’istituto.
    È un segno di apertura della società che risulta meno diffidente rispetto al tema del reinserimento?
    Per essere una cooperativa che sta muovendo i primi passi devo dire che ci danno molta credibilità e questa cosa mi fa molto piacere, perché è ciò che manca proprio alle persone che uscendo dal carcere cercano lavoro. Spesso ci sono realtà che prenderebbero a lavorare le persone che escono dal carcere perché sanno che ci sono dietro io, ed io sono disposto ad impegnarmi a camminare insieme, ad accompagnarle nel percorso, nella sfida di relazione. Molto del buono dell’andare a lavorare è che uno impara a vivere in un modo diverso, impara a stare in mezzo a persone oneste, che hanno gli stessi problemi nella vita ma che li affrontano senza trasgredire la legge. Queste relazioni sono uno dei tratti più importanti della scommessa delle persone che escono dal carcere, uno dei principali per la loro salvezza.
    Quindi scommettete sulla centralità del lavoro come strumento educativo?
    È una sfida educativa. La nostra sfida è far sì che una persona possa rimettersi in piedi attraverso lo strumento del lavoro. I cesti di Natale lo scorso anno sono stati un’esperienza straordinariamente felice, perché quando abbiamo iniziato la nostra avventura ci siamo affacciati su un mondo che è molto vasto, tante sono le cooperative che operano nei penitenziari italiani, affrontando tante fatiche e difficoltà. Molte di queste realizzano prodotti alimentari di grande qualità e confezionare i cesti di Natale significa non solo far conoscere queste realtà, ma anche trasmettere il messaggio che la pena che uno deve scontare per i propri errori non deve consistere soltanto nella privazione della libertà, ma deve essere un’opportunità reale di avviare una vita nuova. Cosa ce ne facciamo di persone che sono chiuse in una cella ad oziare dalla mattina alla sera? Che cosa produce di buono per loro, per le loro famiglie e per la società intera? Niente. Ecco che allora queste realtà cooperative vogliono offrire qualcosa di diverso.
    I cesti di Natale diventano così un viaggio ideale itinerante per i penitenziari di tutta Italia ma lanciano anche una provocazione che è racchiusa nello slogan del lancio della vendita: “Non fare la carità ma dai lavoro”.
    Il bello dei cesti è che sono prodotti che vengono da tutta Italia, c’è la pasta dall’Ucciardone di Palermo e le confetture da Sondrio, i taralli da Trani e il caffè dal carcere di Pozzuoli, le spaccatelle da Cremona, e da quest’anno avremo anche il panettone e la birra a marchio nostro grazie alle collaborazioni che sono nate con le aziende del territorio con i nostri che vanno a lavorare in queste realtà. Acquistando questi prodotti non si fa un regalo solo alle persone che ricevono i cesti di Natale ma anche, e soprattutto, alle persone che li producono perché una persona che in carcere può lavorare ha la possibilità di mandare un panettone ai suoi figli a casa per Natale e far sentire l’affetto che è così difficile da vivere dall’interno delle mura di un penitenziario, per cui c’è dentro una potenza grande in questo gesto. Noi non chiediamo la carità per i detenuti perché non è una cosa dignitosa, bensì lavoro. In ogni cesto c’è l’infografica con la cartina dell’Italia con individuate le carceri di provenienza dei prodotti e quanti dipendenti sono al lavoro in quei penitenziari, quindi comprando quel cesto si può conoscere con esattezza a quante persone si sta dando da lavorare.
    Da quest’anno non solo la proposta dei cesti natalizi sarà più ricca, ma ha fatto nascere un’altra iniziativa. Di cosa si tratta?
    L’anno scorso abbiamo proposto tre cesti di iuta con costi e quantità di prodotti diversi, da quest’anno abbiamo aggiuntoanche una cassetta in legno con panettone e spumante che viene realizzata nella falegnameria del carcere, perché nel frattempo il direttore ci ha autorizzato come cooperativa a mandare un nostro falegname all’interno per avviare la produzione. Abbiamo coinvolto tre persone, un sudamericano, un marocchino e un albanese, che cominceranno il corso di falegnameria proprio in questi giorni con il nostro mastro falegname.
    Il penitenziario di Busto Arsizio è noto per la sentenza Torreggiani del 2013 (con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il problema del sovraffollamento delle carceri, ndr), dal suo osservatorio come cappellano secondo lei sono stati fatti dei passi avanti, cosa occorrerebbe?
    Questa domanda apre un capitolo infinito. In generale, quello che posso dire è che l’emergenza sanitaria ha frenato tutte le attività formative e professionali, ma il vero nemico è l’ozio, dal quale derivano tutte le condotte criminose che hanno portato le personein carcere. In un istituto di pena dove ci sono 200 poliziotti e 2 educatori su una popolazione carceraria di 400 persone, quando la capienza regolamentare è di 240 posti, dire che si viva il dettato costituzionale della rieducazione dei condannati è difficile. Noi come cooperativa ci rifacciamo all’articolo 1 della Costituzione, ossia “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, evogliamo dare vita a questo pilastro costituzionale attraverso l’offerta di un’occupazione. Del resto il libro della Genesi va in parallelo, guardando al lavoro non come punizione, bensì come partecipazione all’opera divina della creazione. Dio è un lavoratore e l’uomo è a Sua immagine e somiglianza. Questi sono i nostri capisaldi su cui poggiamo la forza ideale della nostra concretezza.
    Micol Mulè

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