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    Le tesi di sinistra e sindacati che non aiutano l’occupazione

    Le tesi di sinistra e sindacati che non aiutano l’occupazione

    La difficoltà di reperire le risorse umane adeguate per soddisfare i fabbisogni della domanda di lavoro viene segnalata come una delle criticità che possono compromettere una rapida ripresa della economia. Il tema sta emergendo anche per molti mercati del lavoro in cui per le specifiche caratteristiche, come la flessibilità interna e la capacità di attrarre lavoratori qualificati dai Paesi esteri, le carenze di manodopera si manifestavano solo nelle condizioni di piena occupazione. Una fattispecie che, secondo gli esperti della materia, si verifica quando il numero delle persone che cercano lavoro scende al di sotto del 5% rispetto al totale della popolazione attiva dove emergono anche i fattori collegati al declino demografico.

    l fenomeno è diventato oggetto di studio, e di polemiche sulle terapie per affrontarlo, in molti Paesi sviluppati. In generale gli esperti di mercato del lavoro convergono sul fatto che tutto ciò sia provocato principalmente dall’impatto delle tecnologie digitali che si stanno espandendo nelle organizzazioni del lavoro con intensità e rapidità sconosciute nel passato, coinvolgendo l’intero universo dei comparti produttivi e di erogazione dei servizi. Tale da mettere in discussione qualsiasi pretesa di prevedere l’evoluzione dei profili professionali con sufficiente anticipo per la finalità di adeguare i percorsi formativi per soddisfare le nuove esigenze. Un tema che interroga l’adeguatezza dei sistemi formativi, e del loro rapporto con le dinamiche dei mercati del lavoro anche nei Paesi che hanno positivamente investito in questa direzione. Ma tutto questo offre una spiegazione parziale del fenomeno, se teniamo conto che il problema si sta presentando non solo per i profili che richiedono un’elevata specializzazione o determinati titoli di studio. Riguarda in modo significativo, e per quantità numeriche importanti, il complesso delle mansioni che sulla carta non richiedono particolari percorsi di formazione, e di competenze che possono essere acquisite nell’ambito lavorativo.

    Il tema è tutt’altro che marginale, se consideriamo che l’impatto delle tecnologie sulle organizzazioni del lavoro ha ampliato in modo considerevole il divario tra le qualifiche medio alte e quelle della fasce meno qualificate degli inquadramenti professionali, dove si concentra una rilevante quota degli occupati, svuotando progressivamente il tradizionale ceto medio del lavoro dipendente composto dalle tute blu e dai colletti bianchi.

    La crescita esponenziale delle mansioni poco qualificate, e con basse retribuzioni, che coincidono con quella della povertà laddove il salario percepito rappresenta l’unico reddito familiare, è oggettivamente una delle criticità dei nuovi mercato del lavoro, anche se si manifesta con diversi gradi di intensità nei vari Paesi in relazione alle politiche fiscali e di welfare che vengono adottate.

    La scarsa appetibilità di questi lavori è stata storicamente compensata anche da un aumento del numero degli immigrati. Dando vita al singolare fenomeno, particolarmente evidente in alcuni Paesi anglosassoni e latini, compreso il nostro, della tendenziale stagnazione dei salari, che viene compensata sul fronte del potere di acquisto dalla stabilità dei prezzi. Quest’ultima favorita dal contenimento dei costi del lavoro interni e dalle merci importate dalla Cina e da altri Paesi emergenti. Temi abbondantemente utilizzati da Donald Trump per imporre l’introduzione dei dazi sulle merci importate e le politiche anti-immigrazione. Un equilibrio che ha subito una scossa profonda nel corso della crisi Covid, per effetto dell’enorme aumento dei sostegni al reddito erogati dagli Stati nazionali.

    È sulla funzione di questi sostegni, e delle conseguenze che avrebbero provocato nel mercato del lavoro, che le opinioni degli esperti divergono. Vi sono coloro che evidenziano come i sussidi statali hanno comportato forti disincentivi per la ricerca di un lavoro da parte dei disoccupati, e quelli che all’opposto ritengono che questo effetto sia positivo perché sta obbligando i datori di lavoro ad aumentare le retribuzioni per rendere appetibili le offerte lavorative.

    Sul piano politico il tema dell’aumento per legge dei salari minimi viene riproposto dalle forze politiche di sinistra, e ha assunto un grande rilievo nella campagna elettorale di Biden, e di quella ancora in corso in Germania. In Europa è aperta una discussione per varare una direttiva sulla materia, nel contesto di un rafforzamento delle politiche attive del lavoro, in particolare degli interventi finalizzati a potenziare in ogni ambito, scolastico e lavorativo, l’occupabilità e le competenze dei lavoratori.

    Questi temi, come noto, sono presenti anche nel dibattito italiano. In apparenza ripercorrendo gli approcci teorici, e le polemiche politiche, che abbiamo appena evidenziato. Ma che si intendono applicare in un contesto che presenta caratteristiche molto diverse. Anzitutto per le condizioni di partenza. In Italia il sottoutilizzo delle risorse umane in età di lavoro è più consistente, considerato che il nostro è il Paese con il più basso tasso di occupazione in Europa. Altrettanto vale per la componente di lavoro sommerso, più elevata rispetto alla media Ocse, e che è particolarmente concentrata nei comparti dei servizi, dell’agricoltura e delle costruzioni. Solo una parte di questa, poco meno di un terzo, si identifica con il lavoro sottoremunerato (una condizione che è reale per una quota significativa dei lavoratori immigrati). Il resto è rappresentato dai doppi o tripli lavori svolti da molti occupati regolari e dalle sottodichiarazioni dei guadagni effettivi di una parte significativa dei lavoratori autonomi e di una quota minore dei dipendenti.

    Le politiche passive, ovvero i sostegni al reddito per la perdita involontaria del lavoro, assorbono i tre quarti delle risorse pubbliche dedicate alle politiche per il mercato del lavoro e della formazione, rispetto al 50% della media europea. Nell’ambito di quelle attive per il lavoro, l’integrazione tra i percorsi scolastici e formativi e quelli lavorativi è praticamente inesistente, e la capacità di intermediare l’incontro tra la domanda e offerta di lavoro da parte dei servizi pubblici per l’impiego è pari a un quinto della media europea. In queste condizioni la pretesa di vincolare i beneficiari dei sostegni al reddito al vincolo di accettare nuove offerte di lavoro, un aspetto che viene curato con dovizia nelle politiche attive dei Paesi più avanzati, rimane aleatoria. Mentre appare del tutto razionale che una buona parte dei beneficiari dei sostegni al reddito, che sono di importo inferiore rispetto alle retribuzioni contrattuali, si diano da fare per integrarli con prestazioni sommerse.

    Questi problemi negli investimenti formativi e nelle politiche attive del lavoro spiegano il perché, nonostante il rilevante sottoutilizzo delle risorse umane, la quota dei profili professionali considerati di difficile reperibilità sia molto più elevata rispetto alla media dei Paesi sviluppati (il 36% sul totale della domanda di lavoro secondo la più recente indagine Excelsior del ministero del Lavoro-Unioncamere). Queste criticità, con diverse intensità, riguardano il complesso dei profili richiesti, anche quando non vengono richiesti particolari titoli di studio o specializzazioni già acquisite sul campo. Con motivazioni che spaziano dalla mancanza di candidati, alla carenza di competenze adeguate, di esperienze svolte sul campo o alla semplice indisponibilità a svolgere determinate mansioni.

    L’analisi di questi numeri, e delle strategie da mettere in campo per rimediare le criticità in un’ottica di medio e lungo periodo, almeno per la parte relativa all’integrazione tra i percorsi formativi e lavorativi, non è nemmeno oggetto del confronto in atto tra le istituzioni e le parti sociali in Italia. In compenso, in modo grottesco, vengono riproposti i temi che caratterizzano il dibattito internazionale. In particolare per validare l’idea che l’ulteriore espansione dei sostegni al reddito, e l’indisponibilità ad accettare le mansioni contrattualmente regolari che vengono abitualmente svolte da milioni di lavoratori italiani, rappresenti la via maestra per far aumentare le retribuzioni. Con il risultato pratico di compensare queste carenze rinunciando a espandere le attività e, non di rado, con un aumento delle prestazioni sommerse dove il mercato si mantiene abbondante e persino sovvenzionato dai sostegni al reddito.

    Che queste tesi circolino nella sinistra italiana, con alcune componenti che arrivano a teorizzare la necessità di introdurre un reddito minimo universale non condizionato dalla ricerca di un lavoro, non desta stupore. Che siano sostenute anche da una buona parte delle organizzazioni sindacali che sottoscrivono i contratti collettivi di lavoro la dice lunga sulla ragionevole possibilità di far decollare le politiche attive del lavoro nel nostro Paese.

     

    Natale Forlani

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