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    Chip: l’Europa ci proverà sul serio?

    Chip: l’Europa ci proverà sul serio?
    Sembra passato un secolo da quando gli scenari geopolitici erano dominati dal controllo sulla produzione del petrolio: l’oro nero, risorsa fondamentale per tutti i paesi civilizzati, non solo ha reso ricchi diversi emirati, ma ha tenuto sotto scacco l’economia mondiale per decenni, con l’OPEC (l’organizzazione dei paesi produttori) che alzava e abbassava il prezzo al barile a suo piacimento e le schermaglie belliche (Kuwait su tutte) che avevano lo scopo di condizionare i paesi produttori a vantaggio di chi mostrava muscoli e bombardieri.
    Sicuramente quei fatti verranno ricordati sui libri di storia, mentre il conflitto per il controllo economico globale si è rapidamente spostato su altri versanti e le guerre si combattono con strumenti più raffinati e offrono scenari ben differenti.
    La minaccia principale per l’Occidente oggi non è più rappresentata dal controllo sul petrolio, risorsa in via di esaurimento, ma dalla produzione di tecnologia avanzata, in particolare di microprocessori, cioè dei componenti basilari per la produzione di auto, cellulari, computer, aerei, elettrodomestici. In sintesi, chi controlla la produzione e il commercio di chip sempre più potenti è in grado di accendere o spegnere le economie mondiali.
    Come siamo messi a tal proposito? Taiwan, isola poco più grande della Sicilia e popolata da 24 milioni di abitanti, produce da sola circa il 70% dei processori a livello mondiale. Un ulteriore motivo di interesse da parte della Cina per riportare nella propria orbita la “provincia ribelle”.
    Se ciò accadesse, il governo di Pechino potrebbe segnare la fine della produzione occidentale di tutti i beni sopra citati che oggi condizionano quotidianamente il nostro stile di vita, dall’auto al cellulare, dal pc al treno. Sarebbe una rivoluzione catastrofica.
    Persino l’Europa se ne sta rendendo conto e, a distanza di quasi dieci anni dall’ultimo tentativo, per bocca del presidente della Commissione UE, Ursula Von der Leyen, ha presentato l’European Chips Act, documento di programmazione strategica nel quale si pone l’obiettivo di aumentare la produzione europea di semiconduttori (chips) per arrivare almeno al 20% di quote di mercato.
    Non solo, ma ha rimarcato che il problema non è solo di competitività e di dipendenza dai produttori asiatici, ma di pericolo per la sovranità tecnologica e dunque per la sicurezza del vecchio continente.
    Un moto di orgoglio e una presa di posizione condivisibile, ma quanto è realizzabile?
    Al netto di capire quante risorse potranno essere messe in campo, visti gli impegni già presi su Recovery found e Green Deal, due linee di azione che assorbiranno qualche miliardo di euro al mese per l’immediato futuro.
    Non vogliamo essere scettici, ma la battaglia è davvero difficile.
    Già nel 2013, la commissione Ue per l’agenda digitale, dichiaròche la produzione europea di chip sarebbe raddoppiata, fino a raggiungere il 20% della produzione mondiale, e che l’Europa avrebbe superato gli Usa. Otto anni dopo è sotto gli occhi di tutti che l’Ue non ha recuperato terreno, ma ne ha perso parecchio.
    Ostacolo principale alla messa a terra di propositi così altisonanti è il fabbisogno enorme di investimenti che un tale programma comporta, ragion per cui competere con i big player esistenti rappresenta una lotta impari, al limite dell’impossibile.
    La produzione di microchip si può distinguere in tre fasi: il design, appannaggio totale degli USA, produzione (Taiwan, Corea del Sud hanno l’80% della produzione mondiale) e assemblaggio, sempre appannaggio dei colossi asiatici, con quote residuali americane.
    In un settore fatto di ricerca prima che di produzione, l’altro grosso ostacolo è la qualità dei prodotti; chi investe da anni oggi è in grado di produrre microchip di alta qualità dalle dimensioniinferiori a 5 nanometri. Per capirci, il colosso italofrancese STMicroelectronics produce chips grandi il doppio e meno performanti, comunque idonei a soddisfare meno del 10% del fabbisogno del mercato dell’elettronica di consumo.
    Ecco perché l’obiettivo dichiarato dalla Commissione Ue di voler raddoppiare la produzione europea di alta qualità non è credibile, se non nel medio-lungo termine.
    La condizione necessaria resta comunque la capacità di investimento: TSMC, colosso di Taiwan, ha già programmato investimenti pari a cento miliardi per i prossimi tre anni, Samsung ne sta già investendo il doppio.
    Cina e USA si stanno attrezzando e possiamo credere che alzeranno l’asticella dei budget destinati alla microelettronica nei prossimi anni, contando su imprese e quote di mercato ben diverse da quelle detenute dall’Europa che, ad oggi, è in grado di mettere sul piatto non più di 250 miliardi nell’arco di cinque anni per la transizione digitale (Recovery Plan).
    Meglio che niente, ma certamente insufficiente per competere con Taiwan e compagni.
    In ogni caso, è da apprezzare l’input lanciato dalla Von der Leyene anche se non ci consentirà di arrivare a competere con i big player nell’immediato, almeno manifesta l’impegno per avviare un percorso positivo verso l’autonomia tecnologica che sconta un ritardo di decenni rispetto alla concorrenza. Se sia l’inizio di un nuovo corso, lo scopriremo solo vivendo.
    Pietro Broccanello

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