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giovedì, Ottobre 3, 2024
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    Dalla fase uno alla fase due: un’analisi critica del Professore Pugliese

    Professore, ci può parlare degli aspetti critici della Fase 1 della pandemia di Coronavirus?

    Tutto quello che sta accadendo in questo momento, con tutte le polemiche per aprire la Fase due, avviene senza avere svolto un’analisi critica della prima fase volta a verificare se qualcosa di non compreso e di non fatto avrebbe potuto aiutare allora, potrebbe, se riconosciuto, aiutare nella nuova fase. Ci sono state incertezze, incoerenze ed errori anche gravi. A prescindere dalla tardiva e non limpida comunicazione ufficiale della Cina a metà Gennaio 2020 nonché degli errori plateali del presidente dell’OMS, tese a sostenere la versione ufficiale del Governo Cinese e minimizzare l’aggressività del virus fino a mettere in dubbio la trasmissibilità da uomo a uomo, a prescindere da tutto questo partiamo a considerare la situazione dal 31 gennaio, data in cui il presidente del Consiglio ha dichiarato l’emergenza da protrarre fino a fine luglio. Ci aspettavamo, come conseguenza di tale dichiarazione una serie di scelte che permettessero di conoscere lo stato dell’arte del paese, riguardo le dotazioni di protezione necessarie da utilizzare da parte degli operatori sanitari in prima linea, nonché dai cittadini. Ci aspettavamo anche protocolli organizzativi per affrontare l’emergenza ospedaliera e territoriale. Purtroppo abbiamo dovuto prendere atto che la dichiarazione di stato di emergenza è stata un atto puramente formale senza alcuna iniziativa concreta. All’inizio della pandemia con il primo caso di Codogno, che oggi sappiamo per certo non essere stato il primo, uno tsunami si è abbattuto soprattutto in Lombardia e ha costretto il sistema sanitario a un continuo inseguimento. Il virus però ha viaggiato ad alta velocità e l’inseguimento avveniva inesorabilmente con lentezza. Per far fronte al numero crescente di ammalati gravi, si è riorganizzato il sistema ospedaliero, finalizzandolo quasi totalmente ai pazienti affetti da Covid-19. Si è potuto così offrire assistenza in poco tempo a un incredibile numero di pazienti con diverso stadio clinico sia con necessità di terapia intensiva che assistenza respiratoria. Nello stesso tempo, la regione Veneto, utilizzando una diversa organizzazione, ha ridotto il numero dei ricoveri ai soli pazienti più gravi, dimostrando di avere un sistema territoriale capace di sostenere a domicilio i pazienti sintomatici meno gravi e ha associato fin dall’inizio al lockdown una campagna diagnostica con tamponi molto intensa.

    E questo è stato un fattore importante, Professore?

    Questo è stato senz’altro un fattore importante da cui trarre insegnamento. Noi abbiamo visto all’inizio dell’epidemia che l’uso della diagnostica con tamponi è stata eseguita ampiamente, sia sui soggetti sintomatici sia sui soggetti asintomatici. In seguito l’Istituto Superiore di Sanità anche su indicazione dell’OMS ha dato indicazione ad eseguire i tamponi solo sui pazienti sintomatici ricoverati in ospedale. È stata una scelta completamente sbagliata e pericolosa, proprio dal punto di vista della strategia con cui affrontare il tema del contenimento del virus. Infatti la distinzione tra soggetti infettati diagnosticati e quelli non diagnosticati è fondamentale perché i primi a seconda della gravità vengono ricoverati o isolati con conseguente drastica riduzione del potenziale di diffusione del virus, mentre i secondi rimangono portatori e trasmissori incogniti di un virus, che si mantiene invisibile. Ora, in considerazione del fatto che tutti i cittadini possono e debbono essere considerati suscettibili all’infezione il lockdown era una misura inevitabile e necessaria, la prima da attuare, ma questa misura andava associata a una continua e diffusa diagnostica affrontata con tamponi per far emergere il fenomeno dei portatori asintomatici o paucisintomatici e possibilmente supportata dalla tracciabilità dei contatti.

    Questa scelta era possibile da attuare e se sì, perché non lo è stata?

    Quello che ci è stato detto, anche su parere degli esperti, è che il tampone mette in evidenza l’istante in cui viene fatto ma non è garanzia di una futura infezione. Partendo quindi dal presupposto che non sarebbe stato possibile una ripetizione frequente del test con tampone. tale soluzione non è stata considerata utile, inoltre non ci è mai stato detto con chiarezza se ci fosse una carenza nell’acquisizione dei dispositivi diagnostici o nella possibilità organizzativa. Certamente una tale scelta avrebbe necessitato di un’organizzazione importante, per eseguire una diagnostica diffusa. Sarebbe stato necessario costituire delle equipe mobili capaci di eseguire molte migliaia di tamponi al giorno con modalità intensiva e attivare molti laboratori per processare i test.

    E questo era possibile?

    Le rispondo che più che possibile era doveroso, doveva diventare la priorità con cui cimentarsi. Da questo punto di vista il Veneto rimane un esempio per tutti. Possiamo anche dire che, avendo il lockdown isolato la maggior parte della popolazione, la diagnostica con tampone si sarebbe potuta effettuare con ordine, sulle diverse stratificazioni di popolazione rimaste attive per necessità. Per esempio la popolazione attiva nell’assistenza ospedaliera, in quella territoriale, nelle case di riposo o nelle case per disabili o nelle attività della catena alimentare o nei trasporti. Questo si sarebbe potuto fare anche analizzando campioni statisticamente significativi per ciascun gruppo. In modo da poter avere dati da analizzare in tempo reale che permettessero di leggere la situazione epidemiologica e soprattutto l’incidenza del fenomeno degli asintomatici da scovare ed isolare. Che è il punto meno riconosciuto in tutta la prima fase.

    L’esempio del Veneto poteva aiutarci nella prima fase riguardo questo aspetto?

    L’unica Regione che fin dall’inizio ha seguito questa strada è stata, in effetti, il Veneto dove la politica ha deciso di dare fiducia ad alcuni esperti, i professori Crisanti e Palù, che con lucidità hanno individuato l’uso diffuso della diagnostica come misura indispensabile da associare al lockdown e a questa hanno associato l’analisi in tempo reale dei dati, in pratica un modello di biosorveglianza. È stupefacente che, nonostante i risultati positivi emersi già in marzo, non si sia stati capaci di prendere spunto, copiare il modello e magari implementarlo. In questo senso hanno mostrato carenza di osservazione sia le istituzioni centrali che le regioni, in particolare la Lombardia che era la Regione più sofferente e che più ne avrebbe tratto vantaggio.

    Fin qui lei ha fatto un’analisi critica di ciò che è mancato nella prima fase, può farci degli esempi che possano chiarire?

    Parto da un’esperienza personale che mi ha sollecitato ad osservare con più attenzione ciò che stava accadendo e quindi a poter giudicare il percorso di contenimento proposto in Lombardia. Io ho un fratello, è attualmente paralizzato a seguito di un ictus, è in una casa di riposo. Ha un ritardo intellettivo e per me è come un bambino, considero la sua vita una vocazione che merita di essere servita. Per più di due anni, io, mia moglie ed i miei fratelli siamo andati a trovarlo ed imboccarlo tutti i giorni. Io personalmente andavo tutte le mattine a dargli la colazione, gli parlavo, gli facevo sentire la musica e pregavo con lui. Godevo di un suo sorriso e della sua gioia nel vedermi. Quando a Marzo è scattato l’isolamento per tutti, anche la casa di riposo ha chiuso le visite ai familiari, trasmettendo dei collegamenti in video per salutarli. Quel momento ha dato origine alla mia preoccupazione per mio fratello e per tutti gli ospiti. Una domanda mi si è imponentemente evidenziata: come possiamo proteggere queste persone anziane dal coronavirus? E visto che i parenti non possono più andarli a trovare, mi sono chiesto da dove potrà arrivare questo virus nella casa di riposo? Gli ospiti sono tutti allettati o in carrozzina, comunque isolati. Era ovvio che gli unici che possono essere occasione di contagio erano gli operatori che li dovevano assistere. Sì, c’era già l’ordine che, in caso di minimi sintomi o di temperatura sopra 37,5, gli operatori si fermassero in isolamento, ma io temevo i soggetti asintomatici, portatori del virus che avrebbero potuto essere i driver del Covid, anche se la struttura aveva già provveduto a procurare le mascherine ed i guanti per tutti e addirittura all’entrata nella postazione di guardia, all’arrivo distribuivano disinfettante, mascherine e guanti. Ma una mascherina chirurgica non è una protezione assoluta, tanto più che l’assistenza e l’igiene, richiedono inesorabilmente la vicinanza al paziente. E gli ospiti non sono in condizione di portare mascherine e non le tollerano. Questa preoccupazione che mi urgeva, discutendone tra l’altro con presidente e direttore sanitario, ci ha portati già dalla prima settimana di marzo a chiedere all’Ats di eseguire una mappatura iniziale di tutti in modo da avere l’evidenza già a quel punto della presenza o meno del virus. Ci è stato risposto che l’ordinanza regionale non prevedeva di fare tamponi se non ai sintomatici ricoverati. Hanno persino ritenuto inutile eseguire il tampone ad una paziente febbrile, chiedendoci semplicemente di isolarla in una stanza. Eravamo quindi nell’impossibilità di avere un quadro chiaro di presenza o meno del virus nella Rsa. Del resto le istituzioni regionali si sentivano confortate dal giudizio dei cosiddetti esperti che sentenziavano come fosse sbagliato fare tamponi agli asintomatici. Abbiamo insistito per molto tempo, finché, con difficoltà, si è deciso di comune accordo con la Direzione di procurare tamponi per tutti. Siamo riusciti ad ottenere questo alla fine di marzo con difficoltà. Il risultato del tamponamento diffuso ci ha permesso finalmente di avere il quadro della situazione, evidenziando la positività al Coronavirus di 13 operatori, tutti asintomatici, e di ben 26 ospiti, fra cui mio fratello, di questi solo 4 con sintomi febbrili. La trasparenza della situazione ha permesso alla Direzione di prendere decisioni organizzative adeguate. Un piano della RSA è stato riservato ai pazienti Covid positivi. Ed è stato loro assegnato un personale fisso. Dopo due settimane sono stati ripetuti i tamponi e si è potuto così verificare che molti pazienti si erano negativizzati e, solo un altro operatore è risultato positivo. Credo che questa esperienza possa essere istruttiva circa l’utilità di avere una diagnostica che permetta di riconoscere la presenza del virus anche quando invisibile, riducendo così il suo potenziale di diffusione.

    Parte la Fase 2, sono state pubblicate le prescrizioni di distanziamento sociale attenuate e l’obbligo di utilizzo dei presidi di protezione, è stata specificata sebbene in modo confuso la gradualità nell’apertura delle aziende, ma permane la paura “si potrà riaprire realmente in sicurezza”?

    Pur ritenendo remota la possibilità di un rischio zero, visto che bisogna convivere con il virus, si può, in attesa del vaccino, realisticamente pensare di ridurre il rischio in modo accettabile, combattendolo con tutte le armi disponibili. Le linee di contenimento già previste e la diagnostica: con tamponi, sierologia e tracciamento, attuando così una idonea biosorveglianza, diffusa a tutti gli ambiti di lavoro.

    Certamente sarà necessario un notevole sforzo organizzativo, si dovranno costituire equipe mobili che possano eseguire la diagnostica diffusamente e sarà necessario attivare un numero sufficiente di laboratori. Sarebbe molto interessante, fosse concesso a industrie medie e grandi di organizzare autonomamente la possibilità di eseguire ripetutamente e secondo un programma preordinato e concordato con le autorità, i test diagnostici ai propri dipendenti, facilitandone così la realizzazione. Una simile scelta, in questa seconda fase, potrebbe dare una svolta per accelerare la riapertura delle aziende e garantire al massimo la sicurezza.

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