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    Allo Stato chiediamo solo una cosa: difenda l’immagine dell’impresa italiana

    Il nuovo capitolo della storia della Farmen: alla cosmetica si affiancano i prodotti igienizzanti. Incontro con Gianni Manzetti, dalle materie plastiche ad una impresa leader della cosmetica

    Scavando nella dura roccia dell’impresa italiana, non è difficile rinvenire qualche diamante, generato dalla pressione della sfida della competizione sulla materia prima dell’ingegno e dell’esperienza. In una lingua di terra accoccolata a fianco dell’uscita autostradale di Settimo Torinese, nella pianura che lentamente s’innalza a formare le colline dell’Alto Canavese, a cavallo tra Mappano e Leini c’è Farmen Icd, un’azienda fondata da Mariarosa Ceccon e Gianpiero Manzetti, guidata ora dai figli, Gianni e Alberto, insieme a Guido Bassignana. Tre linee di prodotto nel campo della cosmetica, 200 tra dipendenti e collaborator, l’80% del fatturato generato all’estero, Farmen ha affrontato la tempesta Covid-19 restando saldamente ancorata alle sue radici fatte di capacità di innovazione, di spirito di avventura, di abilità nel reagire anche alle difficoltà più grandi.

    “La nostra produzione è quasi interamente rivolta al mercato professional – spiega Gianni Manzetti, una laurea in ingegneria messa a frutto nelle aziende di stampaggio della plastica prima di approdare al timone dell’azienda di famiglia -; i nostri clienti in tutta Europa sono centri estetici, saloni di bellezza e profumerie. Con il lockdown quasi tutti si sono dovuti fermare, molti, temiamo, non riapriranno più. Solanto in Italia i saloni di bellezza sono circa 20mila, 80mila i parrucchieri, con una media di due dipendenti a testa. Una città che non sa come rialzarsi dall’improvvisa mazzata che l’ha colpita”.

    Che cosa cambierà con la fase 2? Secondo Manzetti le prospettive non sono rosee: “A molti non resta che chiudere, non ci sono molte alternative: la cassa integrazione in deroga ancora non è partita, gli incassi non ci sono e le spese restano quelle di sempre, tra stipendi e costi di struttura. All’estero la situazione è in certi casi migliore: in Germania, per esempio, la cassa integrazione è arrivata subito, così come i contributi a fondo perduto. Per noi l’estero è molto importante: esportiamo quasi tutta la nostra produzione, abbiamo un ufficio di rappresentanza a Parigi e una filiale a Miami”.

    Nonostante la vocazione internazionale, la produzione è sempre rimasta in Italia: “Abbiamo due stabilimenti – prosegue Manzetti – uno tra Settimo e Leini e uno a Mappano. Qui realizziamo tutta la produzione, il packaging, il marketing, l’amministrazione. Di qui non ci spostiamo, le persone che lavorano con noi abitano tutte nei dintorni, abbiamo bisogno della loro capacità e della loro esperienza”. La risata è contagiosa, quella di chi ne ha viste tante, ma ha sempre trovato lo spunto, e il desiderio, di trasformare un ostacolo in una opportunità.

    L’emergenza sanitaria non ha fatto eccezione. Non si possono vendere cosmetici a clienti che sono chiusi, ecco che in due settimane parte una linea che produce gel igienizzanti: “Abbiamo deciso di non mettere i dipendenti in cassa, solo pochi giorni. Intanto, abbiamo progettato il nuovo prodotto, richiesto le certificazioni, preparato i documenti, il packaging, avviato la linea. Certo, non siamo stati a guardare tanto per il sottile, le prime produzioni sono uscite con tre tipi di tappi diversi, abbiamo usato quel che abbiamo trovato, ma il lavoro è andato avanti. Ce la siamo sempre cavata grazie alla qualità del nostro impegno, abbiamo scelto di puntare su di noi anche adesso”.

    Che cosa chiedereste allo Stato? Una domanda banale, a cui ci si aspetta la risposta di prammatica: meno tasse, minore costo del lavoro, più opportunità di finanziamento. Anche, certo; ma la prima risposta è un’altra, sorprendente: “Non abbiamo bisogno solo di soldi, prima di tutto ci serve che lo Stato difenda l’impresa italiana, spinga sulla qualità dei prodotti e sulla capacità di innovazione, difendendo il genio della nostra impresa. Questo chiederemmo. Noi lavoriamo tanto con l’estero, a volte ci stupiamo di quanto siano differenti le condizioni di lavoro: anni fa, in Francia, ho inserito in un contratto la clausola che il distributore francese non potesse scendere sotto un certo prezzo, per non svalutare il prodotto. Le autorità mi hanno risposto che non si poteva: finché il distributore avesse venduto a un centesimo in più di quanto l’avesse comprato, non avrei potuto dire nulla”.

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