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    Brevi cenni sul patto di prova.

    Brevi cenni sul patto di prova.

    Come noto le tutele del lavoratore subordinato (soprattutto a seguito del cd. Decreto Dignità) rischiano, nel caso in cui la prestazione del lavoratore sia poco performante, di risultare particolarmente gravose per il datore di lavoro che voglia procedere con una sostituzione in quella determinata mansione.

    Ovviamente, in sede di assunzione, il datore di lavoro – per quanto il lavoratore possa essere referenziato – non può avere piena contezza delle qualità professionali del lavoratore stesso, né però può prendere “a cuor leggero” un impegno così gravoso come un’assunzione a tempo indeterminato, soprattutto se si tratta di un’azienda con oltre 15 dipendenti.

    Per tutelare la posizione datoriale, l’art. 2096 cod. civ. prevede la cd. “assunzione in prova”; dove si legge: «[1] Salvo diversa disposizione, l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. [2] L’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova. [3] Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza l’obbligo di preavviso o d’indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine. Compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro».

    Nel 1980, l’articolo appena citato è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui «non riconosce il diritto alla indennità di anzianità di cui agli artt. 2120 e 2121 al lavoratore assunto con patto di prova nel caso di recesso dal contratto durante il periodo di prova medesimo» (V. Corte Cost., 22 dicembre 1980, n. 189).

    In sintesi, il periodo di prova è un elemento (leggi una “clausola”) accidentale del contratto che subordina l’assunzione definitiva al superamento del periodo di prova.

    Per la sua validità, tale clausola deve (1) essere inserita nel contratto; (2) avere la forma scritta e da ultimo (3) indicare una durata massima (non prorogabile) e congrua (tendenzialmente 6 mesi) entro la quale la prova deve essere superata.

    In caso di mancato superamento della prova, il datore di lavoro potrà recedere dal rapporto senza obbligo del preavviso, senza che sia garantito un periodo minimo di prova e senza dover indicare una motivazione puntuale.

    Ovviamente tale recesso può avvenire soltanto dopo che sia stato consentito concretamente al lavoratore di svolgere la prova pattuita.

    Trascorso il periodo di prova, senza che nessuna parte abbia receduto dal contratto, il rapporto diventa definitivo.

    Il recesso non richiede una motivazione e non è sindacabile, neanche sul piano giudiziale. A meno che il lavoratore non dimostri che tale recesso sia intervenuto per un motivo illecito (ad es. discriminazione, ovvero ritorsione, ovvero ancora mancato svolgimento in concreto della prova).

    Da ultimo occorre rilevare che in giurisprudenza è stata posta la questione se il patto di prova sia ripetibile; in altre parole se lo medesimo datore di lavoro ed il medesimo lavoratore possano stipulare un nuovo contratto con un nuovo patto di prova.

    Sul punto, l’orientamento più recente sembra dare una risposta positiva a condizione che sia dimostrata: «la necessità per il datore di lavoro di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, trattandosi di elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute» (V. Cass. civ., sez. lav., 12 settembre 2019, n. 22809, rel. dott.ssa Ponterio).

    Avv. Nicola A. Maggio

    n.maggio@pmslex.com

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