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Lo sciopero generale proclamato dalla Cgil e dalla Uil assume di fatto la finalità di marcare un dissenso meramente politico, con dannose conseguenze
La scelta della Cgil e della Uil di proclamare uno sciopero generale nel corso di una pandemia sanitaria, rompendo il fronte sindacale, è semplicemente stucchevole. Ho cercato di comprendere dal comunicato ufficiale delle due organizzazioni sindacali le motivazioni di una scelta così grave, riscontrando solo un lungo elenco di lamentazioni generiche e prive di ragionevolezza.
La nota congiunta definisce come “insoddisfacente” l’esito del confronto con il Governo sulla Legge di bilancio 2022 “in particolare sul fronte del fisco, delle pensioni, della scuola, delle politiche industriali, del contrasto delle delocalizzazioni, del contrasto della precarietà del lavoro, in particolare dei giovani e delle donne, della non autosufficienza…”.
Non è dato sapere quali siano state le proposte avanzate a suo tempo da Cgil, Cisl e Uil su questo universo di materie, tutt’altro che particolare, lasciando anche intendere che l’oggetto del dissenso rispetto alle proposte contenute nella Legge di bilancio comprenda altri temi non esplicitati nella nota ufficiale, ma che riguarderebbero l’intero impianto della politica economica e sociale del Governo Draghi.
Nella tradizione sindacale, anche quella relativa ai confronti con il Governo, l’esigenza di circostanziare gli obiettivi e le distanze tra le proposte avanzate e le risposte degli interlocutori è la condizione necessaria per motivare la scelta di proclamare uno sciopero generale. Se non altro per ponderare in modo ragionevole e proporzionato i costi economici e i disagi provocati alla collettività, rispetto ai risultati che si vogliono ottenere. In assenza di tutto ciò, lo sciopero generale assume di fatto la finalità di marcare un dissenso meramente politico. Una riproposizione farsesca dei precedenti storici, di ben altra portata, che non hanno ragion d’essere nel contesto attuale.
Sino a qualche giorno fa l’oggetto del dissenso era tarato sulla rivendicazione sindacale di destinare integralmente gli 8 miliardi della Legge di bilancio, accantonati per avviare la riforma del prelievo fiscale, alla riduzione delle imposte dirette Irpef che vengono pagate per il 90% dai lavoratori dipendenti e dei pensionati. Un obiettivo che è stato successivamente dirottato verso la riduzione delle aliquote per i redditi medio bassi, intesi come quelli inferiori ai 25 mila euro lordi anno, che è stato ampiamente assecondato dal Governo, tramite l’ampliamento della quota dei redditi esenti dalla tassazione e con la destinazione di ulteriori 1,5 miliardi per ridurre il peso dei contributi sui salari inferiori ai 35 mila euro.
I benefici derivanti per le fasce di reddito inferiori ai 20 mila euro lordi non sono particolarmente rilevanti per il semplice fatto che la tassazione reale su questi importi risulta già contenuta, come ampiamente dimostrato nei resoconti della Agenzia delle Entrate. Tra l’altro, queste sono le fasce di reddito, in aggiunta a quelle fiscalmente incapienti, che beneficiano integralmente dell’introduzione dell’Assegno unico per i figli a carico.
Sul fronte opposto è difficile comprendere la manifesta ostilità verso la riduzione delle aliquote Irpef prevista nella proposta di riforma per i redditi delle fasce immediatamente superiori, fino ai 50 mila euro lordi, che sono ampiamente popolate dai lavoratori dipendenti e dai pensionati. Attribuendo di fatto la veste di ricconi ai redditi netti tra i 2.500 e i 3.500 euro mensili che sono di gran lunga i più penalizzati dall’attuale progressione delle aliquote fiscali.
La contraddizione che si è aperta nel fronte sindacale fornisce l’occasione per fare una riflessione sulla sostanziale incapacità dei corpi intermedi di coniugare la rappresentanza degli interessi specifici con quelli generali. Oltre 6.500 emendamenti alla Legge di bilancio, per la gran parte presentati dai partiti che sostengono l’esecutivo, e l’affollamento delle rivendicazioni di ogni sorta da parte delle rappresentanze sociali, la dicono lunga sul livello di maturità richiesto per affrontare una stagione destinata a produrre cambiamenti profondi nel tessuto economico e sociale della nostra comunità.
Come sottolineato da Sergio Fabbrini (Il Sole 24 Ore del 5 dicembre u.s.,) “l’Italia è piena di specialisti della rivendicazione, talora della minaccia, ma ha una scarsità di rappresentanti che abbiano un’idea del nostro interesse nazionale”. Sintesi perfetta dei retaggi corporativi e populisti che alimentano una sorta di conservatorismo trasversale, con pretese rivoluzionarie, che ostacolano qualsiasi proposito di riforma.
Pretendere che una Legge di bilancio, per quanto espansiva, possa avere la capacità di ridurre le disuguaglianze e di generare uno sviluppo equilibrato e strutturale con un’occupazione stabile, come citato nella nota sindacale, è un atto velleitario. La possibilità che lo sciopero generale possa generare cambiamenti nella Legge di bilancio è ridotta al lumicino. Dalla sinistra politica sono attese manifestazioni di solidarietà, ma il percorso parlamentare della manovra è ormai tracciato, e sostanzialmente blindato, da un accordo tra i partiti che sostengono l’esecutivo. Ma la sortita è un’ulteriore conferma della distanza esistente tra le energie profuse dal Governo per la messa a punto di un programma organico di trasformazione economica del Paese e i comportamenti reali delle rappresentanze che dovrebbero concorrere ad assicurare la governabilità di questi percorsi. L’efficacia del Pnrr dipende dall’efficienza delle pubbliche amministrazioni e dalla capacità di rigenerare le risorse imprenditoriali e lavorative che allo stato attuale sono palesemente inadeguate per sostenere lo sforzo richiesto. E su questi punti le organizzazioni sindacali sono parti in causa, non vittime del sistema.
La scelta operata da Cgil e Uil risulta incomprensibile sul piano sindacale e affossa di fatto la possibilità di rafforzare con concorso delle parti sociali la tenuta dell’impianto del Pnrr. Alla vigilia dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica destinata a produrre conseguenze tra le forze politiche che sostengono il Governo.
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