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    Pensioni: stop alla rivalutazione senza crescita economica

    Pensioni: stop alla rivalutazione senza crescita economica
    Il tema pensioni è uno dei pilastri sociali nazionali sul cui funzionamento il dibattito è sempre all’ordine del giorno. Anche in questa cruciale fase di riforme che il governo Draghi si appresta a introdurre con la manovra finanziaria il tema previdenziale rappresenta uno degli argomenti più importanti e le proposte si accumulano da tempo. Da quota 100 alla riforma dell’Inps alla contribuzione integrativa gli argomenti sul tavolo del legislatore sono molteplici e complessi.
    Una cosa è certa: con la crisi demografica, per cui per ogni persona che lavora ci sono due percettori di pensione e la crisi economica post pandemica il nostro sistema pensionistico non regge più e le prospettive per le generazioni future sono sempre più incerte e fumose.
    Detto che occorre introdurre al più presto e con minori disagi possibili una riforma seria ed equa delle pensioni, bisogna nel frattempo prestare attenzione anche al rischio che le attuali pensioni, già poco generose per gran parte dei beneficiari, non perdano di valore in rapporto al costo della vita che tra rincari dell’energia e dei prodotti di largo consumo.
    Come noto, infatti, il valore della pensione è dato dalla somma di contributi versati durante l’età lavorativa e dalla rivalutazione nel tempo del medesimo importo. Ogni anno, in base all’andamento dell’economia, cioè del Pil, e al costo della vita, le pensioni vengono aggiornate nel loro valore con l’obbiettivo di consentire un equilibrio in termini di capacità di spesa del premio pensionistico maturato. In termini semplici, se il costo del famoso “paniere” Istat aumenta del 2% anche il valore dell’assegno d’anzianità dovrebbe crescere del medesimo valore percentuale.
    Ma perché questo accada occorre che l’economia regga, così da generare interessi al passo con il costo della vita.
    Ecco perché, con il Pil fermo la rivalutazione dei contributi pensionistici rischia di azzerarsi, aumentando il rischio, soprattutto per le pensioni più basse, di non garantire il tenore di vita minimo indispensabile per non entrare nella soglia di povertà. Quindi il rischio per qualcuno è di vedere penalizzato il valore reale dell’assegno pensionistico spettante.
    Allo stato attuale questo coefficiente, a causa della crisi economica e del Pil stagnante, è inferiore a zero, portando a un calcolo al ribasso che viene neutralizzato grazie a forme di compensazione che vengono applicate per consentire che tale coefficiente non sia mai inferiore ad 1, neutralizzando l’effetto negativo.
    Con la nota del 7 ottobre del ministero del Lavoro, l’Istat ha comunicato che il tasso medio del prodotto interno lordo degli ultimi cinque anni è risultato pari a -0,000215 e, pertanto, il coefficiente di rivalutazione dei montanti contributivi è pari a 0,999785.
    Non è la prima volta che questo succede e anche nel recente passato intervenne il Governo che nel 2015 introdusse questo correttivo, su indicazione della Corte Costituzionale che ribadiva il principio di rivalutazione delle pensioni, portando il coefficiente minimo pari a 1 come detto.
    In pratica, l’effetto che si crea è un intervento finanziario governativo teso a sterilizzare gli effetti di una crisi economica. Allo stato attuale, però, Draghi deve fare i conti anche con gli effetti di “Quota 100”, per la quale sono previsti 341mila esodi pensionistici, pari a un costo di circa 19 miliardi di spesa.
    La necessità di mantenere stabile il valore delle pensioni e contemporaneamente garantire l’accesso al mondo del lavoro alle nuove generazioni, sta facendo maturare l’ipotesi di forme di uscite selettive a 62-63 anni, il cui costo si aggira sui 5 miliardi.
    Da quanto indicato recentemente dall’Istat, per il 2022 l’insieme dei fattori sopra descritto porta di fatto ad un blocco delle rivalutazioni, con conseguente congelamento dal 1 gennaio 2022 delle medesime rivalutazioni, a meno che non vi sia un intervento governativo a porvi rimedio. Ma il famoso tesoretto da 23 miliardi della prossima manovra finanziaria non è detto possa bastare.
    Sempre i tecnici dell’Istituto di statistica evidenziano che la penalizzazione nel 2022 sarà irrisoria, pari a un euro annuo per le pensioni più basse.
    Lo scenario potrebbe modificarsi significativamente con l’introduzione di elementi nuovi, come ad esempio l’anticipazione pensionistica a 62-63 anni e la relativa riduzione del montante contributivo, cioè del valore totale dei contributi versati dal lavoratore fino al momento dell’andata in pensione.
    Sicuramente siamo di fronte a uno scenario complesso e difficile da ricomporre, ma l’atteso effetto di riforme strutturali, come taglio del cuneo fiscale e riduzione delle tasse, dovrebbe consentire una ripresa economica più rapida che a sua volta aprirebbe a scenari meno grigi per coloro che dopo una vita di lavoro hanno il diritto di godersi il frutto del proprio sudore.
    Pietro Broccanello

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