martedì, Maggio 7, 2024
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    I licenziamenti individuali in pendenza dell’emergenza COVID-19.

    Come noto, l’art. 46, DL 17 marzo 2020, n. 18 (convertito in legge 27/2020) ha disposto – oltre che la sospensione dei cd. “licenziamenti collettivi” – il divieto per il datore di lavoro di licenziare per giustificato motivo oggettivo. Ciò, ovviamente, al fine di tutelare la stabilità dei rapporti di lavoro, in un grave periodo emergenziale.

    L’articolo, rubricato “Disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo”, prevede che «A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, (fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto). Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604».

    Con riferimento specifico al licenziamento individuale, dalla lettura della norma ad oggi in vigore si evince che tutti i datori di lavoro (a prescindere dalle dimensioni aziendali) non possono licenziare per giustificato motivo oggettivo i quadri, gli impiegati e gli operai assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato nell’arco temporale compreso tra il 17 marzo 2020 ed 16 maggio 2020 [N.B: all’articolo 83 della bozza di Decreto legge (ancora in attesa di approvazione) è prevista una modifica: sospensione di 5 mesi (anziché 60 giorni) delle procedure di licenziamento collettivo per riduzione del personale].

    Viceversa i recessi datoriale per ragioni organizzative e non assoggettati all’art. 3 L. 604/1966 sono consentiti: quali ad es. i dirigenti, gli apprendisti, coloro che hanno raggiunto l’età pensionabile, i lavoratori domestici, gli sportivi professionisti, i lavoratori in prova e gli assunti a termine.

    Tale divieto riguarda soltanto i licenziamenti individuali per ragioni organizzative/economiche «inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (v. art. 3 L. 604/1966). Sono esclusi, pertanto, tutti i licenziamenti conseguenti un comportamento disciplinarmente rilevante (per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo), per superamento del periodo di comporto, per inidoneità fisica sopravvenuta e da ultimo per impossibilità sopravvenuta della prestazione.

    Le conseguenze sanzionatorie di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel periodo indicato dal Decreto Cura Italia sono riconducibili alle conseguenze della nullità del recesso datoriale. Infatti, la norma prevede un espresso divieto, che non può che rendere nullo tale eventuale licenziamento, con applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria piena di cui all’art. 18, primo comma, L. 300/1970.

    Ne consegue che il lavoratore avrà diritto alla reintegra ovvero in alternativa (ed a sua scelta) ad una indennità risarcitoria pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre al pagamento delle mensilità maturate dalla data del licenziamento fino alla reintegra, nella misura in ogni caso non inferiore a 5 mensilità.

    Resta, purtroppo aperta (perché non espressamente disciplinata), la questione dell’esito delle procedure relative al tentativo di conciliazione davanti alla ITL di cui all’art. 7 L. 604/1966. Tali procedure, si ricorda, sono obbligatorie per la legittimità dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act (7 marzo 2015).

    Gli interpreti si domandano, infatti, se tali procedure debbano intendersi soltanto sospese (con effetti soltanto sul preavviso) ovvero revocate (con l’effetto del rientro in servizio del lavoratore).

    Di fronte a tale incertezza, ad avviso di chi scrive, il datore di lavoro in modo prudenziale dovrebbe valutare di revocare la procedura attivata e, soltanto all’esito dell’emergenza COVID-19, considerare nuovamente l’eventuale soppressione del posto tramite licenziamenti individuali.

    Nel frattempo le imprese, aderendo alla cassa integrazione per Covid-19 (che di fatto si può applicare a tutti i lavoratori), non affronteranno il costo dei lavoratori individuali la cui procedura di licenziamento è stata revocata. Infatti, per un periodo di nove settimane, le aziende possono sospendere o ridurre l’attività lavorativa dei dipendenti e l’Inps erogherà il trattamento di integrazione salariale pari all’80% della retribuzione persa.

    avv. Nicola A. Maggio

    Pizzagalli & Maggio Avvocati

    n.maggio@pmslex.com

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