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    È vietato produrre in giudizio la corrispondenza tra professionisti contente proposte transattive o riportante la dicitura “riservata personale”

    È vietato produrre in giudizio la corrispondenza tra professionisti contente proposte transattive o riportante la dicitura “riservata personale”
    L’art. 48 del Codice Deontologico Forense (già art. 28 codice previgente) vieta di produrre o riferire in giudizio la corrispondenza espressamente qualificata come riservata, nonché quella contenente proposte transattive scambiate con i colleghi, a prescindere dalla clausola di riservatezza e quale che ne sia il contenuto. Infatti, tale norma afferma che “l’avvocato non deve produrre, riportare in atti processuali o riferire in giudizio la corrispondenza intercorsa esclusivamente tra colleghi qualificata come riservata, nonché quella contenente proposte transattive e relative proposte”.
    Il Consiglio Nazionale Forense (CNF, 19 dicembre 2019, n. 181) era intervenuto per pronunciarsi sull’esposto presentato da un avvocato del foro di Trapani nei confronti di un suo collega, il quale denunciava il deposito, con la comparsa di costituzione e risposta, di buona parte della corrispondenza intercorsa tra i difensori delle parti, alcune peraltro riportanti la dicitura “riservata personale”.
    All’esito dell’istruttoria, il COA di Palermo riteneva l’avvocato ricorrente responsabile della violazione degli artt. 6 (doveri di lealtà e correttezza), 22 (rapporto di colleganza) e 28 (divieto di produzione della corrispondenza) c.d.f., e di conseguenza comminava la sanzione dell’avvertimento.
    L’avvocato incolpato di aver violato il principio di affidabilità e lealtà nei rapporti interprofessionali proponeva dunque ricorso avverso la decisione del COA,lamentando l’assenza di rilevanza deontologica della condotta (da imputare ad un errore della propria segretaria nella collazione del fascicolo), la mancanza di un danno per la controparte, avendo presentato istanza di ritiro della corrispondenza tra colleghi, l’insussistenza dell’elemento psicologico in relazione alla commissione della violazione disciplinare, oltre che la sua buona fede.
    Il Consiglio Nazionale Forense riteneva i motivi addotti nel ricorso infondati per varie ragioni. In primis, dichiarava che la lettera qualificata come “riservata” non poteva essere prodotta, anche se non contenente proposte transattive. Infatti, «la qualificazione di riservatezza operata dall’avvocato non consente alcuno spazio valutativo e deliberativo circa la producibilità, alla stregua del contenuto o della più o meno rilevante pregnanza della corrispondenza stessa al possibile fine della decisione della lite» (vedi C.N.F., sentenza n. 36 del 21 febbraio 2005). In secondo luogo, l’elemento psicologico sufficiente ai fini della sussistenza dell’illecito disciplinare era la volontarietà del comportamento dell’incolpato, ossia una «volontà consapevole dell’atto che si compie».
    Inoltre, il divieto di produrre la corrispondenza riservata scambiata con il collega non poteva essere aggirato richiedendo al Giudice di ordinare alla controparte l’esibizione di un documento della cui esistenza e del cui contenuto si aveva avuta notizia in via riservata da collega avversario.
    Alla luce di tali osservazioni, trovava applicazione l’art. 48 c.d.f., affermante il divieto di produrre in giudizio la corrispondenza tra i professionisti. Non va infatti dimenticato, ribadiva il C.N.F., che tale norma risponde all’esigenza «di tutelare la riservatezza del mittente e la credibilità del destinatario, nel senso che l’avvocato che inoltra la corrispondenza non deve essere condizionato dal timore che il contenuto del documento possa essere valutato in giudizio contro le ragioni del suo cliente, mentre il collega destinatario deve essere portatore di credibilità e lealtà».
    avv. Nicola A. Maggio
    n.maggio@pmslex.com

    avv. francesca Pizzagalli

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