Il mondo delle scarpe italiane non vive una stagione brillante: nei primi sei mesi del 2025 il fatturato è sceso del 5,6% e la produzione ha segnato un -9,5%. Segnali meno negativi si intravedono nel secondo trimestre, ma il quadro resta difficile. A tracciare la fotografia è il Centro Studi di Confindustria Accessori Moda per Assocalzaturifici, che presenta i dati alla vigilia del Micam, il salone internazionale della calzatura in programma dal 7 settembre a Milano Rho.
L’export, che rappresenta l’85% della produzione nazionale, ha raggiunto 4,89 miliardi di euro nei primi cinque mesi (-2,7%), con 84,5 milioni di paia vendute (+3,2%). Il prezzo medio, però, è sceso a 57,82 euro (-5,7%). Bene i mercati comunitari (+1% in valore e +6,1% in volume), trainati dal recupero della Germania (+12,4% in valore) e dalla solidità della Francia, che resta il primo sbocco nonostante un -5,5% in valore. Tra i Paesi extra-UE, invece, pesano i cali del Far East (-23%) e dell’area CSI, con Russia (-14,4%) e Ucraina (-3,8%). In controtendenza Emirati Arabi (+26,6%) e Turchia (+13,5%). Sull’altro fronte, cresce l’import (+18,2% in quantità), soprattutto dall’Estremo Oriente (+45%), con incrementi da Cina, Vietnam, Indonesia, Cambogia e Birmania.
Anche il mercato interno resta debole, con consumi familiari in calo dell’1,9% in volume e dello 0,7% in spesa. L’unico segmento in crescita è quello delle scarpe sportive e delle sneakers (+1,2%). La congiuntura pesa anche sulle imprese: nel primo semestre si contano 81 calzaturifici in meno (-2,4%) e 1.392 occupati persi (-2%), mentre le ore di cassa integrazione autorizzate sono cresciute del 12,8% su base annua, con aumenti significativi in Toscana (+97%), Marche (+27%) ed Emilia-Romagna (+32%). A complicare le prospettive ci sono inoltre i dazi americani del 15%, su cui pende un giudizio della Corte Suprema USA: un’incognita che preoccupa un settore che nel 2024 aveva negli Stati Uniti il secondo mercato di riferimento, con quasi 1,4 miliardi di euro di export. Più della metà degli imprenditori (58%) teme di chiudere l’anno peggio del 2024.






