mercoledì, Maggio 8, 2024
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    La desertificazione dello smart working

    La desertificazione dello smart working

    Una Milano spettrale ospita palazzi vuoti che uccidono il settore della ristorazione. Nei grandi centri direzionali, da Gae Aulenti a City Life, gli incassi vanno a picco.

     

    Sono solo un lontano e amaro ricordo le pause pranzo milanesi con bar e locali brulicanti di colletti bianchi intenti a consumare un veloce panino prima di rientrare in ufficio. Girare per Milano all’ora del business lunch è sconfortante. Questa è la fotografia di Milano nell’era dello smart working che, da antidoto al contagio, si è trasformato ben presto in virus letale soprattutto per il settore della ristorazione. Locali storici della città che da decenni vivono all’ombra dei grattacieli e devono la loro sopravvivenza ai lavoratori di quei palazzi, ora sono in serio pericolo di chiusura definitiva.

    Se piazza Gae Aulenti e corso Como dall’ora dell’aperitivo fino a notte fonda vedono un certo flusso di avventori, negli orari d’ufficio la medesima zona cambia volto, lasciando trasparire la desolazione dei locali vuoti, come del resto vuoti sono gli uffici della torre UniCredit che svetta sulla piazza deserta. Tutti in smart working. Lo scenario non cambia se ci si sposta nella zona di Porta Nuova, dehors e tavoli interni con poche persone, così come in Melchiorre Gioia che attende ancora i dipendenti di Regione Lombardia ad affollare i propri locali per la pausa pranzo o caffè.

    Non va meglio nemmeno nel prestigioso centro City Life, in piazza Tre Torri, dove all’ombra dei tre grattacieli Hadid, Isozaki e Libeskind, più noti come il Dritto, il Curvo e lo Storto per la loro fisionomia, non si muove più il popolo numeroso dei dipendenti di Allianz, Pwc e Generali che con i loro uffici occupano la triade. I locali qui devono la loro sopravvivenza agli elementi attrattivi della zona, lo shopping district e l’ampio parco sempre molto frequentati.

    La clientela cala sensibilmente e così l’offerta dei menu. Se prima era gara in stile Masterchef per innovare le proposte gastronomiche proponendo panini dai gusti più disparati, menu vegani, vegetariani, fusion, slow e fast food per soddisfare anche i palati più esigenti o sofisticati, ora si bada a salvare la giornata. Alcune attività non solo hanno ridotto l’offerta ma persino gli orari d’esercizio, prima della pandemia molto più flessibili, e soprattutto tarati sulla Milano che non dorme mai. Il calo di fatturato per locali storici della zona tocca picchi dell’80% e le previsioni per il futuro – tolto il mese di agosto che fisiologicamente registra il calo dovuto alle ferie – non sono per nulla rosee. Se ora tra i palazzi dei centri direzionali milanesi si aggira mediamente il 25% dei lavoratori, per la ripresa di settembre è atteso il 50%, comunque troppo poco per confidare in una boccata d’ossigeno e poter parlare di ripresa.

    Bisogna tornare nei quartieri a vocazione residenziale e popolare, quelli della vecchia Milano, per trovare una situazione, non florida, ma quantomeno economicamente in equilibrio. Qui paga il rapporto personale, la familiarità che il cliente ha con il titolare del bar sotto casa che ha permesso di reggere agli urti dell’emergenza sanitaria. Quegli stessi urti che per molti esercizi si stanno rivelando fatali.

    Micol Mulè

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